“Mi chiamano Radio” è il film, da cui è tratta questa sequenza di scene, che racconta la vera storia di James Robert “Radio” Kennedy, un giovane con un grave ritardo mentale e un cuore d’oro e di Harold Jones, allenatore di football americano e insegnante alla T. L. Hanna High School.
James “Radio” trascorre le sue giornate in giro per la città, spingendo un carrello della spesa dentro il quale ripone tutte le cose che trova. Durante le sue passeggiate, spesso si ferma ad osservare i ragazzi della squadra di football “Jacket” che si allenano, guidati dal loro coach Jones.
In seguito a un episodio di bullismo da parte dei suoi ragazzi nei confronti di Radio, il coach Jones inizia a prendersene cura e a renderlo parte integrante della squadra.
“Vedete quel ragazzo laggiù? … Si chiama Radio e per un po’ ci offrirà il suo aiuto e questo non deve creare il minimo problema”
Un meraviglioso esempio non solo di integrazione, ma anche di inclusione. Il giovane aiuta come può il coach, incita e motiva i ragazzi durante ogni partita, diventando ben presto la mascotte delle squadra, nonostante la resistenza da parte di alcuni genitori che non vedono di buon occhio la sua partecipazione e che non perdono occasione per far notare il loro disappunto a Jones.
Come la volta in cui Radio, nella sua ingenuità, da bordo campo svela ad alta voce lo schema di gioco alla squadra avversaria. Nonostante ciò Jones si dichiara “molto fiero di tutti i ragazzi” e quello che appare uno “scompiglio” agli occhi degli altri, per lui è una risorsa da valorizzare e che, a sua volta, è in grado di dare valore alla vita gli altri.
“Quando giocavo, anch’io avevo un coach, mi ripeteva sempre di stabilire le priorità, mi diceva: figliolo, cerca di capire che cosa è importante e metti da parte il resto”
Radio è importante, la sua vita, il suo potenziale inespresso, i pregiudizi, le critiche, la paura del “diverso” è ciò che invece va messo da parte.
Il coach non si dà per vinto e continua a sostenerlo e a coinvolgerlo negli allenamenti e nelle partite dei Jacket. Nonostante il grave ritardo e i tiri mancini da parte degli altri ragazzi, Radio dà continuamente prova della sua bontà, rivelandosi molto “più uomo” di tanti altri.
Quando il coach riunisce tutti per comunicare le sue dimissioni dal ruolo di allenatore, tra le righe sta chiedendo a tutta la comunità di non abbandonare Radio, che lui intende continuare a seguire come insegnante:
“C’è fra noi un giovane uomo del quale non ci stiamo occupando, lo stesso giovane uomo che parlava a mala pena quando l’ho incontrato e adesso invece legge gli annunci all’altoparlante la mattina. Lo stesso giovane uomo che ha ricevuto lo stemma della squadra e non l’ha mai messo perché non può permettersi un giubbetto. E adesso gli chiediamo di andarsene?”
Come lui ci sono tanti giovani che oggi faticano a trovare un posto nella società che, per troppo tempo, anche dal punto di vista educativo, ha etichettato la “diversità” come “anormalità” da medicalizzare. Chi ci dice cos’è normale e cosa non lo è?
La sensibilità, i sorrisi e la spontaneità di Radio sono l’unica normalità che può infrangere il muro di cemento armato dell’indifferenza di chi non osa uscire dalla gabbia delle proprie convinzioni invalidanti. La diversa abilità ha innata in sé una semplice e trasparente capacità di relazionarsi e di mettersi in gioco che talvolta anche quelli che si ritengono perfettamente “normali” dimenticano.
“ … La verità è che non siamo noi che gli insegniamo qualcosa, è Radio che la insegna a noi”
Fino a qualche decennio fa era impensabile che le persone con disabilità fisica e intellettiva potessero essere “autorizzati” a partecipare alla pratica sportiva. Sebbene un cambiamento radicale sia auspicabile solo abbattendo completamente stereotipi e pregiudizi ancora troppo radicati nella società odierna, oggi lo sport sta diventando sempre più rivincita e riscatto.
Il coach Jones, proprio grazie allo sport, che aiuta a crescere, a educare, e a favorire, col gioco di squadra, l’inclusione, ha riscattato Radio da una vita qualunque e gli ha regalato un sogno che forse non sapeva neanche di avere.
Nella scena finale della sequenza proposta vediamo Radio, ormai cinquantenne, irrompere nel campo da football insieme alla squadra del liceo di cui è il coach.
Col suo esempio, Harold Jones ha insegnato ai suoi ragazzi che forte non è solo chi vince una partita, ma chi sa riconoscere che la diversità è ricchezza. Il coaching ha, come disciplina, il merito di riuscire a scoprire e stimolare anche questo tipo di consapevolezza.
Contribuire alla creazione e alla diffusione di una cultura sociale che sia il più inclusiva possibile è dovere e responsabilità di ognuno, in ogni ambito della propria vita.
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“Mi chiamano Radio” (Radio) è un film del 2003 diretto da Michael Tollin, con Cuba Gooding Jr. e Ed Harris.
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