Perché mai un naufrago sperduto in un’isola della Thailandia e impegnato in una durissima lotta per la sopravvivenza trasforma una palla da volleyball in un amico immaginario?
Chuck Noland è un agente della FedEx unico superstite di un disastro aereo a largo del Pacifico. Chuck lotta per rimanere vivo ed apprende come accendere un fuoco con mezzi di fortuna, come nutrirsi di granchi e abbeverarsi con il succo estratto dalle noci di cocco. Sopravvive al dolore, gestito senza ausilio di farmaci, ma sembra non poter sopravvivere all’isolamento e alla solitudine.
Tra i detriti dell’aereo caduto c’è un pallone su cui Chuck disegna un volto dalla vaga somiglianza umana e a cui attribuisce un nome, Wilson, mutuandolo dalla marca della stessa palla da volleyball.
Wilson per oltre 4 anni lo mantiene ancorato alla realtà e gli impedisce di impazzire: lo “ascolta”, è un amico con cui litigare, a cui affidarsi e a cui potersi emotivamente legare…
Noi esseri umani viviamo di relazioni e attraverso le relazioni (Vincenzo Perrone, 2016). Abbiamo una tendenza innata ad oggettivare i nostri pensieri ed il nostro sentire: siamo assolutamente capaci di realizzarci attraverso quello che facciamo ma, allo stesso tempo, abbiamo bisogno che la nostra “opera” o il nostro agire siano riconosciuti e apprezzati, addirittura criticati, ma comunque, assolutamente, VISTI dall’altro.
In Analisi Transazionale viene utilizzata la terminologia “stroke”, traducibile con “carezza”, per indicare un’ unità di riconoscimento che procura stimolazioni ad un individuo (Woollams e Brown, 1978) e, in maniera molto sintetica, fa riferimento al bisogno di stimolazione mentale e fisica che ci è assolutamente indispensabile nei primi PERIODI di vita per restituirci il senso di esistere e di essere al mondo. Ebbene, non cessiamo mai di avere bisogno di FEEDBACK positivi e di ri-orientamento dai nostri diversi interlocutori.
Ma torniamo nell’isola del Pacifico e assistiamo insieme ad una scena veramente commovente: Chuck ha trovato un modo per allontanarsi dall’isola e sfidare l’oceano: legato alla sua zattera di fortuna svetta Wilson ed entrambi affrontano onde ed intemperie. Poi il vento si fa più forte e Chuck si abbandona al sonno, il palo a cui è ancorato Wilson cede. L’amico si allontana nel mare. Al risveglio Chuck è attonito, lo osserva allontanarsi e non ha dubbi: si lancia in mare pronto a recuperarlo, annaspa, gli manca il fiato, l’acqua entra nella gola, invoca a gran voce, con tutto il fiato rimastogli, il nome del suo amico. Deve scegliere se salvarsi la vita o recuperare Wilson. Nelle sue urla cogliamo disperazione “Wilson scusami…Wilson scusami non ce la faccio…scusami”. Se chiudiamo gli occhi Wilson potrà assumere anche per noi sembianze umane. L’umanizzazione di una palla da volley ha rappresentato la salvezza psicologica di Chuck.
Ora veniamo a te, caro leader, potrebbe essere utile ricordare questa scena quando pensi che i tuoi collaboratori non hanno poi così bisogno di ricevere dei feedback?
In fondo tutti sappiamo da soli se abbiamo raggiunto o meno l’obiettivo e, soprattutto quando siamo stati bravi, il tuo intervento potrebbe essere superfluo.
Oggi, nonostante a livello teorico sia ampiamente riconosciuta nelle aziende la cultura del feedback, spesso, usando come alibi la tecnologia (che non adeguatamente usata può spersonalizzare la relazione) o la frenesia o la pressione del cliente esterno, rischiamo di avere poca cura nella restituzione dei feedback ai nostri collaboratori. Oppure restituiamo giudizi di valore, frettolosi e svalutanti, sottovalutando l’impatto che realmente potrebbero avere sul nostro interlocutore.
Il feedback efficacemente costruito permette un autentico confronto tra la percezione soggettiva della propria performance e le informazioni fornite da colleghi e responsabili e diventa uno strumento concreto di gestione dei propri collaboratori e miglioramento delle loro performance.
E voi vi sareste gettati in mare per salvare il vostro Wilson?
Sono fiduciosa che tutti possiamo ricordarci che dietro un ruolo ci sono delle persone che condividono il nostro stesso bisogno di riconoscimento e di valorizzazione.
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Donatella Menza
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